Regista prolifico e poliedrico, nella sua lunga carriera Antonello Falqui ha segnato la storia del varietà televisivo italiano nel momento del suo massimo splendore. Lo ha – anzi – tenuto a battesimo, potremmo dire; senza stancarsene e senza stancare i telespettatori, che adoravano i suoi spettacoli. Senza rinunciare a percorrere nuove strade e proporre nuove formule.

Ecco una breve raccolta di testimonianze sull’importanza della sua figura e del suo lavoro, raccolte tra critici e grandi appassionati di spettacolo da Enzo Lavagnini.

Enciclopedia dello Spettacolo

Nella TV italiana Falqui rappresenta l’anello di congiunzione tra la fase provinciale, dialettale, legata ai primi shows, e quella di spettacoli più compositi e suggestivi, basati sul richiamo di vedettes internazionali, sulla creatività della ripresa e delle coreografie, sulla ricchezza e varietà delle proposte scenografiche e figurative, sulle personali soluzioni registiche, che hanno spesso cercato di rinnovare e adeguare il genere a certi schemi della rivista di Broadway.

Curzio Maltese

Commentando a posteriori la Canzonissima del 1968, su “La Stampa” del 24 agosto 1992 :

“Illuminata dalla regia di Antonello Falqui, un talento euclideo ed ineguagliato per la cura dell’inquadratura ed il gioco di camere…”

Aldo Grasso

da “Storia della televisione italiana” (Garzanti, 2000):

Falqui rappresenta l’espressione più alta del varietà televisivo classico: l’eleganza formale, gli ampi e maestosi movimenti di macchina, la proposta del numero “internazionale”, le scenografie sempre vagamente liberty costituiscono certamente il marchio di fabbrica del più formidabile regista del varietà televisivo “tradizionale”.

Falqui è cosciente di non potersi fare eccessive illusioni estetiche con programmi di intrattenimento, ma ribadisce continuamente che le forme espressive che si è scelto necessitano comunque di gusto e intelligenza.

A proposito di Ottovolante:

Un programma di giochi e brani di varietà, una specie di caccia al tesoro, allestita da Antonello Falqui. Si tratta di uno dei primi incerti passi che il varietà televisivo muove alla ricerca di una formula autonoma, dopo le iniziali esperienze mutuate dalla radio o dal teatro. Falqui inventa “la pesca della fortuna”, dove i concorrenti sono invitati, con tanto di canna, lenza e amo, a tirar fuori da un contenitore le cose più strane; Enrico Luzi, con un “bando” in tempo reale, invita il pubblico a portare in trasmissione gli animali più curiosi, vivi e, possibilmente, innocui: dopo circa mezz’ora arriva in studio la polizia e l’ingresso nell’auditorium sembra uno zoo.

A proposito di Canzonissima:

Il raffinato gusto scenico e la grande abilità professionale di Falqui trovano il perfetto sbocco in Canzonissima; l’edizione con il trio Scala-Panelli-Manfredi resta il più perfetto paradigma di varietà televisivo “classico”, il più elegante e vivo trapasso del teatro di rivista nel nuovo mezzo.
Tra tutte le edizioni, la più citata e mitica è quella del ’59 di Garinei, Giovannini, Dino Verde e Lina Wertmuller, diretta da Falqui e presentata da Delia Scala, Nino Manfredi e Paolo Panelli. Il programma prende subito quota, trovando il giusto equilibrio tra rivista, canzonette e “televisività”, e si pone come il più compiuto punto di riferimento per ogni successivo spettacolo di varietà italiano.

A proposito di Giardino d’inverno:

Andata in onda per una sola stagione e firmata da Dino Verde, è una rivista “senza parole” che apre il music-hall italiano a suggestioni internazionali. La regia di Antonello Falqui sperimenta spericolate acrobazie tecniche ed espressive, su cui si appuntano le critiche di Achille Campanile: “In Giardino d’inverno, mediante trucchi tecnici delle telecamere, Gorni Kramer riesce ad apparire in due differenti immagini, nello stesso momento, sul medesimo video. Poiché le due immagini sono state filmate in diversi momenti, separatamente, e poi riunite sul video, figurano come se fossero due persone diverse. Ma attenzione! Scherzi di certe situazioni: il fatto di star seduti su due minuscoli sgabellini, misto all’abituale espressione del volto, fa sì che tutto l’effetto, lungi dall’essere il sorprendente sdoppiamento di un brillante suonatore di fisarmonica, sia quello di due signori che, con qualche pena e con un po’ di disagio per il fatto di doverlo fare in pubblico, stessero facendo la cura di Montecatini”.

A proposito di Studio Uno:

Falqui è stato negli Usa, ha visto spettacoli nuovi, vuole proporli in Italia. Da una pratica in particolare è stato colpito: non c’è più bisogno di scenografie sfarzose, gli artisti si muovono su fondali fatti di grandi spazi bianchi. La telecamera può così far risaltare meglio i corpi delle ballerine, delle star, dei conduttori; si comincia in questo modo a ragionare in termini di linguaggio televisivo. E poi la cosa più moderna, sconvolgente: si vedono in campo gli strumenti con cui si riprende lo spettacolo: telecamere, microfoni, giraffe, luci… Il risultato è Studio Uno, la prima rivista squisitamente televisiva, uno spettacolo che paga una volta per sempre il suo debito con il varietà teatrale.

A proposito di Bambole, non c’è una lira!:

Paillettes, piume di struzzo, luci sfavillanti e ballerine in abiti succinti come in Studio Uno e in Giardino d’inverno e il resto ha poca importanza. Il regista Antonello Falqui, proprio perché quella della rivista teatrale sembra essere una storia conclusa, pensa sia “il momento giusto per fare il punto su che cosa ha rappresentato e sul perché è finita”. Ripercorre così le principali tappe dell’avanspettacolo, in una carrellata dal ’35 al ’60. Attraverso le vicende di un’immaginaria compagnia squattrinata e sempre alla ricerca di finanziamenti, si scoprono le caratteristiche del teatro leggero con i suoi componenti fissi: la soubrette capricciosa ma essenziale per lo spettacolo, il giovane brillante, la “soubrettina” in grado di cantare, ballare e recitare anche senza vero talento ma bella di presenza, il comico che viene dalla gavetta e che riempie i “vuoti” tra un cambio di scena e l’altro, il cantante-ballerino-porteur e infine la coppia di produttori.

A proposito di Giandomenico Fracchia:

“Si tratta di uno spettacolo abbastanza inconsueto, una commedia musicale con molte parole, o, se si preferisce, una commedia in prosa con musica e canzoni, in sostanza quattro film veri e propri con musica e coreografia (perché il taglio è decisamente cinematografico), quattro film girati in quaranta giorni, una specie di record”, sostiene Antonello Falqui, regista e coautore dei testi con Dino Verde, Marcello Marchesi, Umberto Simonetta, Italo Terzoli, Enrico Vaime, Maurizio Costanzo e lo stesso Paolo Villaggio. Fracchia (corrispettivo televisivo del cinematografico Fantozzi, entrambi partoriti dalla fantasia di Villaggio), modesto ragioniere di una grande società, è portatore della “schizofrenia latente del subordinato”. Questa sindrome si manifesta nel servilismo ipocrita nei confronti dell’autorità aziendale, impersonata dal saccente e sadico cavalier Acetti (Gianni Agus), da cui cerca scampo in sogni “mostruosamente” proibiti. In tali evasioni oniriche Fracchia, riscattandosi dal grigiore quotidiano, diventa protagonista di un intero Telegiornale o campione dei campioni di Rischiatutto, e la segretaria Maria Ruini (Ombretta Colli), nascostamente bramata dall’impiegato, si trasforma in una donna affascinante, bellissima e disponibile. Eroe perdente dei “tempi moderni”, anello debole di una frenetica catena di montaggio produttiva e disumanizzante, il personaggio di Fracchia ha generato stereotipi linguistici (“Come è buono lei!” supino e ossequioso tributo al principale che lo tiranneggia), tic gestuali (“Mi si sono intrecciati i diti” per esprimere lo spasmo paralizzante davanti all’arroganza del potere) e immagini simboliche (la poltrona malferma sulla quale Fracchia è costantemente costretto a sedersi è divenuta metafora del disagio in pubblico). “Proprio in ragione della forte carica satirica Giandomenico Fracchia si appresta a essere uno spettacolo popolare: insolito nella forma ma antintellettualistico nella sostanza, secondo il concorde proposito degli autori” (Pietro Pintus, “Radiocorriere”, 12-18 ottobre).

Lietta Tornabuoni

da “Album di famiglia della tv” (Arnoldo Mondadori Editore, 1981):

Che si chiami Canzonissima, Partitissima, Giardino d’inverno o Studio Uno, la canzone-spettacolo è messa in telescena nello stile del musical di Broadway. Garinei e Giovannini, Antonello Falqui e Guido Sacerdote riversano nelle trasmissioni il proprio amore per il sogno americano e per il datato show alla Ziegfield: grande lusso, scenografie mobili e scintillanti, coreografie inadatte al video fitte di decine e decine di ballerine, stars, costumi ricchissimi, scale, ospiti d’onore, coreografi americani come Hermes Pan (maestro di Fred Astaire, ndc) o Don Lurio, Bluebelle Girls per il balletto, cantanti e fantasisti internazionali come Zizi Jeanmaire, Mac Roonay, Henry Salvador. Un fasto affascinante che somiglia al boom economico italiano: sproporzionato e coloniale, frenetico e precario.

Walter Veltroni

da “I programmi che hanno cambiato l’Italia. Quarant’anni di televisione“. (Feltrinelli, 1992):

A proposito di Studio Uno:

 

Studio Uno è stato il più semplice e forse il più popolare dei varietà televisivi non legati alla lotteria. La sua struttura era sobria e lineare. Niente scenografie, solo un fondale chiaro, un’orchestra disposta in maniera dimessa e il succedersi di ospiti e personaggi fissi. La prima edizione era colta, raffinata, un po’ pretenziosa. Insieme a Emilio Pericoli e Renata Mauro si potevano vedere filmati con Thomas Mann o intere puntate dedicate a George Gershwin. Lo spettacolo aveva una dichiarata vocazione internazionale. (…) Ma i protagonisti veri di Studio Uno erano, in sostanza, due: il regista Antonello Falqui e Mina. Falqui inventò Studio Uno dopo un viaggio negli Usa. Lì aveva appreso una lezione di semplicità. E aveva costruito uno show a scorrimento lineare, nella ricerca di un equilibrio tra i generi tradizionali del varietà: le canzoni, il balletto, l’ospite, lo sketch. Falqui aveva già curato, allora, Il Musichiere e Giardino d’inverno ed è stato, prima e dopo Studio Uno, il regista dell’edizione più fortunata di Canzonissima e l’inventore, nei primi anni settanta, di uno spettacolo originale con Proietti: Fatti e fattacci (…)

 

A proposito de La Biblioteca di Studio Uno:

 

Del varietà di quegli anni Biblioteca di Studio Uno fu il vero kolossal. Estratto dalla trasmissione madre, il programma si dilatò con uno sforzo produttivo immenso. Venivano scelti dei testi dalla grande letteratura popolare. Venivano sintetizzati, all’osso, per stare nei sessanta minuti canonici. Poi venivano scritti i dialoghi che dovevano, quasi interamente, essere modulati sull’aria di canzoni popolari. La parola parodia è, in questo caso, troppo piccola. Qui c’è un immenso sforzo ideativo. Ogni scena prevedeva l’adattamento di un dialogo che tenesse insieme la storia su una o più musiche famose. Ne vennero fuori dei cammei. La tecnica era, per il tempo, sufficientemente inedita e l’effetto dell’intrusione del “profano” musicale nel “sacro” letterario apparve di assoluto valore dissacratorio. Personaggi fissi erano i quattro del Quartetto Cetra che collaboravano ai testi e alle musiche. La loro intelligenza e anche finezza culturale, la loro flessibilità e adattabilità di generi costituiva il perno fisso e forte della trasmissione. Ma attorno ruotava il meglio del teatro italiano, televisivo e non. E tutti si adattavano a giocare, a prendere in giro se stessi e il testo classico. Non c’è gioco di parole, calembour, doppio senso che non sia stato usato da Falqui e dal produttore del programma Sacerdote. Non c’era musica conosciuta che Bruno Canfora non abbia trovato, adattato, rifatto. Era un fuoco di artificio di trovate, di guizzi d’ingegno. Tutti sono passati da Biblioteca di Studio Uno. Più o meno come tutti, in quegli stessi anni, passavano da Cinecittà. Il programma di Falqui era, credo, un grande set, un immane sforzo della giovane macchina produttiva della Rai. In una sola puntata si potevano contare venti scene diverse, cinque o sei balletti, duelli, costumi d’epoca e parrucche. E poi tutto il lavoro di scrittura dei testi, la scelta delle musiche, la loro registrazione, la colonna sonora delle voci degli attori, il perfetto playback. Un gigantesco lavoro, per un varietà. E fu un grande successo. Nessuno si è più azzardato, in questa dimensione, a ripetere lo schema della grande parodia. Ci ha provato Canale 5 in tempi recenti, ma è meglio lasciar perdere. Qui parliamo di cose serie, di un programma curato come una miniatura, intelligente, spiritoso, gaio. Capolavori, altro che storie.

 

Gualtiero Peirce

dall’articolo “Nel segno della tivvù” (Venerdì, La Repubblica, 9 aprile 1999):

Se nomini Studio Uno a chi ha almeno quarant’anni rammenti un varietà indimenticabile: Mina, Walter Chiari, Totò, De Sica, Mastroianni. Ma quella sigla identifica soprattutto un prototipo assoluto della tv italiana: il primo studio in cui la televisione ha messo in scena se stessa senza più palcoscenico e platea, senza più il teatro, in un ambiente popolato esclusivamente dalla fauna televisiva: giraffe, telecamere, ospiti e conduttori. Oggi siamo definitivamente assuefatti: non ci sorprende più ogni sera di trovarci di fronte a spazi allestiti apposta per uno spettacolo televisivo eppure tutto, proprio tutto, dai colorini ammiccanti delle trasmissioni Mediaset alle sontuosità carrambesche di Raiuno discende da quella scenografia nera, buia, concepita da Antonello Falqui per svelare che lo spettacolo si era trasferito in un nuovo habitat: la tv.

Dal sito mosaico Rai Teche (www.teche.rai.it)

A proposito di Studio Uno:

Diretto da Antonello Falqui, questo varietà nasce dall’idea del regista di semplificare al massimo lo spettacolo: scenografie essenziali, spazi sconfinati, linee geometriche, coreografie scarne, utilizzo visibile degli strumenti di lavoro, telecamere e giraffe incluse. Una formula vincente durata dal 1961 al 1966, dall’eleganza di Mina alle gambe delle Kessler, dalla simpatia di Walter Chiari alla professionalità mai noiosa di Don Lurio. Tantissimi grandi nomi hanno calcato gli studi di questo varietà all’avanguardia: Vianello e la Mondaini, il Quartetto Cetra, la Vanoni, Sandra Milo e un gran numero di altri famosi ospiti.

Cesare Cunaccia

(a proposito di Milleluci, Lampoon, numero 10)

È rimasta nella storia l’estrema apparizione televisiva di Mina: risale al 1974, lungo la collana delle puntate tematiche di Milleluci, regia dell’insuperato maestro del genere Antonello Falqui. Milleluci, l’ultimo grande varietà italiano in sublime bianco e nero, in cui Mina divideva la conduzione con un altro mostro sacro d’ogni generazione, Raffaella Carrà. Specie la sigla finale, Non gioco più, dove magrissima, quasi emaciata, elegante come non mai, con acconciatura un po’ Marella Agnelli e pesante trucco espressionista degno della Lulu di Pabst e della prima Marlene Dietrich, tra lurex e piume, aspirando fumo da un lungo bocchino, recitava non senza ironia il ruolo di cinica femme fatale. Il refrain, annoiato e ipnotico, magari già preannunciava il suo imminente ritiro, avvenuto appunto nel 1978 e reso memorabile dai 14 recital d’addio sold out alla Bussola di Viareggio. Antonello Falqui, grande ermeneuta del sabato sera della RAI monocanale, l’aveva capito subito di che pasta fosse fatta la signora Mazzini. Nel 1964 la dovettero richiamare a furor di popolo perfino dopo l’esilio per la nascita del figlio Massimiliano avuto dal bel tenebroso Corrado Pani, attore sposato e fedifrago, fatto che produsse enorme fragore di scandalo e pruriginosa curiosità nell’Italietta bigotta e perbenista di allora.

Italo Moscati

(a proposito di Al Paradise, sul Radiocorriere tv)

Avete visto come Mariangela Melato si è data da fare in Al Paradise? Roba da Festival di Spoleto, quando la simpatica Mariangela aveva un gran naso e recitava nell’indimenticabile, effervescente Orlando Furioso di Luca Ronconi, anno 1968. Potrà sembrare curioso l’accoppiamento fra lo spettacolo del sabato sera diretto da Antonello Falqui e il Festival di Spoleto….

Franco Marcoaldi

(Falqui: una tivù tutta da buttare, Repubblica 7, 06, 1996)

Ammesso e non concesso che al centro della scena sociale ci sia ancora lei, sempre lei, solo lei – la tivù – viene naturale inserire in questa breve carrellata di “protagonisti fuori-scena” (per scelta o per forza), un maestro vero dell’ intrattenimento televisivo: Antonello Falqui. E difatti eccomi qui, nel suo appartamento borghese ai Parioli (ingresso con marionette siciliane francesi thailandesi cinesi; sala da pranzo tappezzata di manifesti dell’ età d’ oro di Broadway; salotto coi suoi bravi De Pisis, Maccari, Vespignani, Caruso). La casa, in effetti, la immaginavo proprio così. Era l’ incontro che mi prefiguravo diverso. Due amabili chiacchiere con un anziano signore adagiato nei ricordi dei bei tempi andati: quelli di Studio Uno e Canzonissima; Mina e Walter Chiari; il bianco e nero e Rintintin. Naturalmente abbiamo parlato anche di questo. Ma l’ anziano signore sembra decisamente più propenso a dire la sua sulla fetenzia cui è ridotta la televisione di oggi…

Franca Valeri

(in “La Tv alla moda. Stile e star nella storia della Rai”, prefazione al libro di Fabiana Giacomotti).

I salotti non esistevano; né mondani né politici (in televisione): sono un prodotto di fine secolo; i romanzi erano un po’ più rari e la recitazione direi migliore, o no? E’ lo spettacolo del varietà o del sabato sera che segna il distacco storico. Perfino il dialogo fra Mina e Sordi era scritto; certo, era previsto che lui ci mettesse del suo. Il regista che per anni ha ideato il sabato sera era Antonello Falqui e lui lo portava fino alla perfezione. Per me era l’ideale; non ho mai improvvisato. Un piccolo aneddoto. Un giorno ho portato il cagnolino, Roro II, appena arrivato dall’Inghilterra. Antonello entusiasta decide che Roro cominci la puntata, lo studio vuoto e lui in mezzo. Al primo ciak il piccolo gira la testa stupito e accenna un piccolo “bau”. Tutti entusiasti, finché Antonello dice: “Facciamone un’altra”. Alla settima, mentre rincorro il mio tesoro, la voce del regista: “Meglio la prima”.